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La persecuzione degli ebrei a Roma il 16 ottobre 1943 ci fu il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma da parte dei nazisti DOCUMENTARIO ricordiamo pure che gli ebrei all'epoca fascista dei patti lateranensi vivevano nei ghetti in Italia
Tra il 1933 e il 1945, furono circa 15-17 milioni le vittime dell'Olocausto, di entrambi i sessi e di tutte le età,TRA CUI 4-6 milioni di ebrei. è scritto chiaro https://it.wikipedia.org/wiki/Olocausto https://rumble.com/v1bnowj-visita-turistica-ad-auschwitz-a-vedere-le-camere-a-gas-e-i-forni-crematori https://rumble.com/vzk1mp-le-vittime-non-ebree-del-regime-nazista
https://rumble.com/v2pkm98-quando-bergoglio-passava-da-solo-a-piedi-sotto-la-scritta-arbeit-macht-frei https://rumble.com/v24xxne-politici-e-massoni-che-vengono-gettati-dentro-il-cassonetto-dellimmondizia https://rumble.com/v2pig0w-22-agosto-1938-il-censimento-degli-ebrei-in-italia-atto-primo-delle-leggi
https://rumble.com/v24y84s-previsione-sul-futuro-degli-uomini Il rastrellamento del ghetto di Roma fu una retata effettuata dalle truppe tedesche della Gestapo con la collaborazione dei funzionari del regime fascista della Repubblica Sociale Italiana tra le ore 05:30 e le ore 14:00 di sabato 16 ottobre 1943 (da cui il ricordo di questo giorno come Sabato nero), che portò all'arresto di 1 259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica romana. Gli arresti vennero attuati principalmente in via del Portico d'Ottavia e nelle strade adiacenti ma anche in altre differenti zone della città di Roma
Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto (mischlinge) o stranieri, 1 023 rastrellati furono deportati direttamente al campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 16 di loro sopravvissero
https://it.wikipedia.org/wiki/Rastrellamento_del_ghetto_di_Roma
Gli ebrei a Roma I primi ebrei si erano insediati a Roma nel II secolo a.C. e la loro consistenza aumentò sensibilmente dopo la prima guerra giudaica condotta dal futuro imperatore Tito (66-70 d.C.).
Nel 1555, papa Paolo IV ordinò la reclusione di tutti gli ebrei di Roma in un'area del rione Sant'Angelo, tra l'antico Portico d’Ottavia e la sponda del Tevere[5]. Il luogo, recintato da mura, era dotato di porte che venivano chiuse dal tramonto all'alba e, così come l'analogo luogo di reclusione veneziano, fu ben presto chiamato "ghetto"[6]. Nel 1825, papa Leone XII ampliò il ghetto ebraico con un ulteriore isolato dell'attuale via della Reginella.
Pio IX, nel 1848, abbatté le mura del ghetto e liberalizzò la residenza degli ebrei a Roma. Il rione, tuttavia, continuò ad essere abitato, in stragrande maggioranza, da cittadini di religione ebraica.
Nel settembre del 1943, la comunità ebraica romana contava tra le 8 000[8] e le 12 000[9] persone.
All'indomani dell'occupazione tedesca di Roma (10 settembre 1943), Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, comandante dell'SD e della Gestapo a Roma, ricevette un messaggio da Heinrich Himmler, ministro dell'interno, comandante delle forze di sicurezza della Germania nazista e teorico della soluzione finale della questione ebraica: "i recenti avvenimenti italiani impongono una immediata soluzione del problema ebraico nei territori recentemente occupati dalle forze armate del Reich"
Il 24 settembre successivo, Himmler fu più esplicito: in un telegramma segreto e strettamente riservato per il colonnello Kappler disponeva che "tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell'impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa".
Nel pomeriggio di domenica 26 settembre 1943, Kappler convocò presso il proprio ufficio a Villa Wolkonsky il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ugo Foà, e quello dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dante Almansi, intimando loro la consegna, entro trentasei ore, di almeno 50 chilogrammi d'oro, minacciando, prima, la deportazione di duecento ebrei romani verso la Germania, poi, di tutta la comunità ebraica[11]. In cambio dell'oro, Kappler promise agli ebrei l'incolumità[12].
Il Tempio maggiore all’interno del ghetto di Roma
La mattina dopo iniziò la raccolta dell'oro all'interno del Tempio maggiore (sinagoga). Nel pomeriggio la Santa Sede, informata del ricatto di Kappler, comunicò in via ufficiosa che avrebbe autorizzato un prestito in lingotti d'oro sino al raggiungimento dei 50 chilogrammi richiesti dalla polizia tedesca, ma ciò non fu necessario[13].
Alle ore 18 di martedì 28, dopo una proroga dei termini di quattro ore, accordata dallo stesso Kappler, i capi della Comunità ebraica romana si presentarono a Villa Wolkonsky per la consegna dell'oro. Kappler li fece accompagnare da una scorta nel vicino edificio di Via Tasso 155, dove l'oro fu pesato per ben due volte e alla fine risultò pesare 50,3 chilogrammi[14].
Kappler spedì immediatamente l'oro a Berlino, al capo dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich, generale Ernst Kaltenbrunner, con una lettera di accompagnamento nella quale si esprimevano perplessità sulla fattibilità della deportazione e si suggeriva di utilizzare gli ebrei romani come mano d'opera per lavoro obbligatorio[15].
Kaltenbrunner rispose sdegnato: "È precisamente l'estirpazione immediata e completa degli ebrei in Italia nell'interesse speciale della situazione politica attuale e della sicurezza generale in Italia". A guerra finita, l'oro fu trovato intatto nella cassa, in un angolo dell'ufficio di Kaltenbrunner[16].
Nei primi giorni di ottobre arrivò a Roma con uno staff di una decina di uomini Theodor Dannecker (collaboratore di Eichmann e dotato di esperienza acquisita nell'organizzare la deportazione degli ebrei dalla Bulgaria), il quale chiese a Kappler collaborazione logistica e operativa per la progettata deportazione degli ebrei romani. «Gli risposi - avrebbe dichiarato Kappler al processo del 1948 che lo vide imputato - di rivolgersi al commissario Raffaele Alianello, della polizia fascista, che faceva da collegamento con quella tedesca e costui fornì venti agenti»[17]. Scrive lo storico Bruno Maida: «Alloggi, forze da utilizzare, la schedatura completa degli ebrei romani: Dannecker ebbe in poche ore tutti gli strumenti per organizzare la "caccia" nella città. Altri quattordici ufficiali e sottufficiali tedeschi, seguiti da trenta militi, lo raggiunsero nei giorni seguenti, portando con loro l'esperienza acquisita nella caccia agli ebrei in Europa orientale»[18].
Il 14 ottobre successivo, Kappler ordinò il saccheggio delle due biblioteche della Comunità ebraica e del Collegio rabbinico e fece caricare due vagoni ferroviari diretti in Germania con materiale di inestimabile valore culturale[1]. Gli agenti di Kappler portarono via anche gli elenchi completi dei nomi e degli indirizzi degli ebrei romani[16]. Alla successiva individuazione dei domicili collaborarono anche i commissari di pubblica sicurezza Raffaele Aniello e Gennaro Cappa[1].
Lo stesso giorno, Kappler inviò una lettera al comandante del campo di sterminio di Auschwitz, Rudolf Höss, comunicandogli che avrebbe ricevuto intorno al 22-23 ottobre un carico di oltre 1 000 ebrei italiani e di prepararsi a concedere loro il "trattamento speciale".
La retata
Lapide al ghetto di Roma con la seguente iscrizione:
IL 16 OTTOBRE 1943
QVI EBBE INIZIO
LA SPIETATA CACCIA AGLI EBREI
E DVEMILANOVANTVNO CITTADINI ROMANI
VENNERO AVVIATI A FEROCE MORTE
NEI CAMPI DI STERMINIO NAZISTI
DOVE FVRONO RAGGIVNTI
DA ALTRI SEIMILA ITALIANI
VITTIME DELL'INFAME
ODIO DI RAZZA
I POCHI SCAMPATI ALLA STRAGE
I MOLTI SOLIDALI
INVOCANO DAGLI VOMINI
AMORE E PACE
INVOCANO DA DIO
PERDONO E SPERANZA
A CVRA DEL COMITATO NAZIONALE
PER LE CELEBRAZIONI DEL VENTENNALE
DELLA RESISTENZA
23 OTTOBRE 1964
Trascrizione della lapide sottostante:
"E NON COMINCIARONO NEPPURE A VIVERE"
IN RICORDO DEI NEONATI
STERMINATI NEI LAGER NAZISTI
IL COMUNE POSE NELLA GIORNATA DELLA MEMORIA
GENNAIO 2001
All'alba di sabato 16 ottobre 1943, giorno festivo per gli ebrei, scelto appositamente per sorprenderne il più possibile, 365 uomini della polizia tedesca, coadiuvati da quattordici ufficiali e sottufficiali, effettuarono il rastrellamento in maniera mirata (grazie al censimento degli ebrei svolto anni prima dal governo Mussolini[19]) degli appartenenti alla comunità ebraica romana[1]. Nessun italiano fu ritenuto abbastanza fidato da Kappler per partecipare all'azione[1]. Un centinaio di uomini circa furono destinati all'operazione all'interno del ghetto e i rimanenti nelle altre zone della città.
La Gestapo operò prima bloccando gli accessi stradali e poi evacuando un isolato per volta e radunando man mano le persone rastrellate in strada. Anziani, invalidi e malati furono gettati con violenza fuori dalle loro abitazioni[20]; si videro bambini terrorizzati che si aggrappavano alle gonne delle madri e donne anziane che imploravano invano pietà[21]. Nonostante la brutalità dell'operazione, le grida e le preghiere strazianti, i rastrellati si ammassarono abbastanza disciplinatamente, tanto che, a detta di Kappler, non fu necessaria l'esplosione di alcun colpo di arma da fuoco[3].
I 1 259 complessivamente rastrellati, molti di loro ancora vestiti per la notte, vennero caricati in camion militari coperti da teloni e trasportati provvisoriamente presso il Collegio Militare di Palazzo Salviati in via della Lungara 82-83[22]; rimasero nei locali e nel cortile del collegio per circa trenta ore, separati per genere ed in condizioni assolutamente disagiate[1]. Tra essi vi fu anche un neonato, partorito il 17 ottobre dalla ventiquattrenne Marcella Perugia[23].
Il rapporto sull'operazione inviato via radio da Kappler al generale delle SS Karl Wolff, documento poi presentato durante il processo ad Adolf Eichmann dall'accusa, recita:
«Oggi è stata iniziata e conclusa l'azione antigiudaica secondo un piano preparato in ufficio che consentisse di sfruttare maggiori eventualità. Sono state messe in azione tutte le forze a disposizione della polizia di sicurezza e di ordine. In vista della assoluta sfiducia nella polizia italiana, per una simile azione, non è stato possibile chiamarla a partecipare. Perciò sono stati possibili singoli arresti con 26 azioni di quartiere in immediata successione. Non è stato possibile isolare completamente delle strade, sia per tener conto del carattere di Città Aperta sia, e soprattutto per l'insufficiente quantità di poliziotti tedeschi in numero di 365. Malgrado ciò nel corso dell'azione che durò dalle ore 5,30 alle 14,00 vennero arrestate in abitazioni giudee 1 259 individui, e accompagnati nel centro di raccolta della Scuola Militare. Dopo la liberazione dei meticci e degli stranieri (compreso un cittadino vaticano), delle famiglie di matrimoni misti compreso il coniuge ebreo, del personale di casa ariano e dei subaffittuari, rimasero presi 1 007 Giudei. Il trasporto fissato per lunedì 18 ottobre ore 9.
Accompagnamento di 30 uomini della polizia di ordine. Comportamento della popolazione italiana chiaramente di resistenza passiva; che in un gran numero di casi singoli si è mutata in prestazioni di aiuto attivo.
Per es. in un caso, i poliziotti vennero fermati alla porta di un'abitazione da un fascista in camicia nera, con un documento ufficiale, il quale senza dubbio si era sostituito nella abitazione giudea usandola come propria un'ora prima dell'arrivo della forza tedesca.
Si poterono osservare chiaramente anche dei tentativi di nascondere i giudei in abitazioni vicine, all'irrompere della forza germanica ed è comprensibile che, in parecchi casi, questi tentativi abbiano avuto successo. Durante l'azione non è apparso segno di partecipazione della parte antisemita della popolazione: ma solo una massa amorfa che in qualche caso singolo ha anche cercato di separare la forza dai giudei.
In nessun caso si è fatto uso di armi da fuoco[24].»
Secondo lo storico Michael Tagliacozzo, ci sono molte probabilità che il fascista menzionato da Kappler sia Ferdinando Natoni, riconosciuto come Giusto tra le nazioni per aver salvato dal rastrellamento le gemelle Mirella e Marina Limentani[25].
Svariate decine, o addirittura centinaia di ebrei, riuscirono a salvarsi grazie all'aiuto del gerarca fascista Achille Afan de Rivera e di sua moglie Giulia Florio, che abitando a ridosso del ghetto, a palazzo Costaguti, permisero ai fuggitivi di entrare attraverso una porta di servizio e poi scappare dall'ingresso principale in una zona non sorvegliata. 16 famiglie rimasero nascoste all'interno dell'edificio, salvandosi solo grazie all'adesione politica del padrone di casa, che convinse gli ufficiali della Gestapo a non perquisire l'abitazione.[26]
La verifica dello status dei prigionieri condusse al rilascio di 237 di loro, identificati come cittadini stranieri, compreso uno di nazionalità vaticana, componenti di unioni o famiglie miste, compresi i partner ebrei ed altri arrestati risultati di “razza ariana”[27]. Una giovane ventenne originaria di Ferrara, tal Piera Levi, arrestata casualmente con la madre nel centro di Roma mentre si trovavano ospiti di alcuni parenti, saputo che né il suo nome né quello della madre risultavano negli elenchi delle persone ricercate, riuscì a convincere Theodor Dannecker, che le interrogò quel pomeriggio tramite un interprete, che entrambe erano cattoliche e lei stessa ebrea solo per metà, ottenendo il rilascio di entrambe[28]. Rimase nel gruppo una donna cattolica che si dichiarò ebrea per non abbandonare un giovane orfano molto malato che era stato affidato alle sue cure. Entrambi furono assassinati nella camera a gas al loro arrivo ad Auschwitz[20].
La deportazione
I deportati furono trasferiti alla stazione ferroviaria Tiburtina, dove furono caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame. Ad essi si aggiunse spontaneamente Costanza Calò, sfuggita alla retata, ma che non volle abbandonare il marito e i cinque figli catturati[29].
Il convoglio, partito alle 14.05 di lunedì 18 ottobre, giunse al campo di concentramento di Auschwitz alle ore 23.00 del 22 ottobre ma i deportati rimasero chiusi nei vagoni sino all'alba[30]. Nel frattempo, uno o due anziani erano già periti e, a nord di Padova, un giovane, Lazzaro Sonnino, era riuscito a fuggire, gettandosi dal convoglio in movimento[31].
Fatti uscire dai vagoni, i deportati vennero suddivisi in due schiere: da una parte 820, giudicati fisicamente inabili al lavoro e dall'altra 154 uomini e 47 donne, dichiarati fisicamente sani. Gli 820 del primo gruppo furono immediatamente condotti nelle camere a gas, mascherate da “zona docce” e soppressi. Quello stesso giorno, i loro cadaveri, lavati con un getto d'acqua e privati dei denti d'oro, furono bruciati nei forni crematori[32].
I deportati dell'altro gruppo furono in parte destinati ad altri campi di sterminio. Tornarono in Italia solo 15 uomini e 1 donna. Tra coloro che rimasero ad Auschwitz, sopravvisse solo Cesare Di Segni. L'unica donna superstite, Settimia Spizzichino, sopravvisse alle torture di Bergen-Belsen[32].
Il silenzio del Papa
Il Papa fu messo a conoscenza della razzia dalla principessa Enza Pignatelli, sua ex allieva, che aveva assistito in parte al rastrellamento e subito si era recata in Vaticano chiedendo udienza al Pontefice, che la ricevette immediatamente. Pio XII si mise senza indugio in comunicazione telefonica con il cardinale Segretario di Stato Luigi Maglione perché prendesse informazioni e si interessasse della questione[33].
Seguì un colloquio tra il cardinale Maglione e l'ambasciatore tedesco presso il Vaticano Ernst von Weizsäcker, al quale il segretario di Stato chiese di "intervenire in favore di quei poveretti", lamentandosi per il fatto che "proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre Comune, fossero fatte soffrire tante persone unicamente perché appartenenti a una stirpe determinata". Alle richieste di Weizsäcker sul possibile comportamento della Santa Sede nel caso fossero continuati i rastrellamenti di ebrei, Maglione rispondeva che "La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione"[34].
Weizsäcker propose allora e ottenne che la protesta vaticana fosse affidata a una lettera del rettore della Chiesa tedesca a Roma Alois Hudal. Questi fu appositamente contattato dal nipote del Papa, Carlo Pacelli[35] e inviò una lettera al generale comandante militare di Roma Reiner Stahel in cui auspicava la "non reiterazione degli arresti, per evitare un intervento pubblico del Papa contro di questi". Per il resto, Pio XII mantenne un riservato silenzio[36].
Domenica 17 ottobre un funzionario della Città del Vaticano si recò al Collegio Militare limitandosi a chiedere il rilascio degli ebrei battezzati; nemmeno tale richiesta fu esaudita in quanto, in base alla legislazione tedesca allora in vigore, gli ebrei convertiti non cessavano di appartenere alla “razza ebraica”[23].
Comportamento vaticano dopo la deportazione
Via del Portico d'Ottavia 13, "Il portonaccio".
Solo il 25-26 ottobre, quando gli ebrei del ghetto erano già giunti ad Auschwitz e la maggioranza di essi era già stata soppressa, vi fu un articolo sull'Osservatore Romano mirante a giustificare il comportamento della Santa Sede, ma il cui contenuto appare quanto mai criptico per i non addetti ai lavori: "L'Augusto Pontefice… non ha desistito un solo momento dal porre in opera tutti i mezzi in suo potere per alleviare le sofferenze che in qualunque modo sono conseguenza dell'immane conflagrazione. Questa multiforme e incessante azione di Pio XII, in questi ultimi tempi si è anche maggiormente intensificata per le aumentate sofferenze di tanti infelici"[37].
Il 28 ottobre 1943 Weizsäcker nella sua relazione al Ministro degli esteri tedesco poteva rassicurare il governo nazista sul fatto che "Il Papa, benché sollecitato da diverse parti, non ha preso alcuna posizione contro la deportazione degli ebrei da Roma" e che "Egli ha fatto di tutto anche in questa situazione delicata per non compromettere il rapporto con il governo tedesco e con le autorità tedesche a Roma. Dato che qui a Roma indubbiamente non saranno più effettuate azioni contro gli ebrei, si può ritenere che la spiacevole questione per il buon accordo tedesco-vaticano sia liquidata".[38]
Ovviamente quando Weizsäcker affermava che "non saranno più effettuate azioni contro gli ebrei" faceva riferimento a rastrellamenti di intere zone della città come quello del 16 ottobre; ma a Roma la caccia agli ebrei e la loro deportazione continuò, tant'è che tra le 335 vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine ben 75 erano appartenenti alla comunità ebraica romana, considerati "assimilabili" ai cosiddetti Todeskandidaten, ovvero i prigionieri detenuti a Roma già condannati a morte o all'ergastolo e quelli colpevoli di atti che avrebbero probabilmente portato ad una loro condanna a morte[39], sui quali avrebbe dovuto essere esercitata la rappresaglia tedesca per l'attentato di via Rasella.
Del resto, che la persecuzione degli ebrei romani continuasse anche dopo il rastrellamento del ghetto, è dimostrato dalla preoccupazione del Pontefice per la sorte degli ebrei romani scampati alla grande razzia: come è stato recentemente rivelato dal Vaticano per bocca del segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone[40][41], il 25 ottobre 1943 Pio XII emanò una direttiva riservata a tutti gli ecclesiastici italiani in cui indicava come necessario fornire aiuto agli israeliti invitandoli ad "ospitare gli ebrei perseguitati dai nazisti in tutti gli istituti religiosi, ad aprire gli istituti o anche le catacombe".
Non mancarono, effettivamente, forme di resistenza passiva da parte di prelati come Roberto Ronca e Pietro Palazzini e di tutto il clero che, in generale, rispose con l'accoglimento clandestino nei conventi e nelle strutture religiose cristiane di 4 447 ebrei censiti[42][43].
Numerosissime analoghe forme di accoglimento della popolazione ebraica furono effettuate da parte di comuni cittadini, mentre altri li denunceranno per incassare la taglia promessa dai tedeschi per la loro cattura. È tristemente nota la storia di Celeste Di Porto, diciannovenne ebrea soprannominata "Pantera Nera", che divenne amante di un agente di pubblica sicurezza e denunciò al proprio compagno numerosi correligionari, ivi compresi alcuni parenti.
I sopravvissuti
Il numero complessivo dei deportati di religione ebraica nel periodo dell'occupazione tedesca di Roma fu di 2 091[44] (1 067 uomini; 743 donne; 281 bambini); di essi, riuscirono a tornare 73 uomini, 28 donne, nessun bambino[45].
Di coloro che furono deportati il 16 ottobre 1943 solo 16 rientrarono in patria (15 uomini e una donna; nessun bambino sotto i 14 anni). Il più anziano era Cesare Di Segni (nato nel 1899) e il più giovane era Enzo Camerino (nato nel 1928).[46] Questi i loro nomi:
Michele Amati (Roma, 20 ottobre 1926 - Roma, 26 giugno 1984), liberato a Buchenwald il 4 aprile 1945[47]
Lazzaro Anticoli (Roma, 3 gennaio 1910 - Roma, 18 gennaio 2000), liberato a Stolberg l'8 maggio 1945[48]
Enzo Camerino (Roma, 2 dicembre 1928 - Montréal, 2 dicembre 2014), liberato a Buchenwald in data ignota, tornato a Roma il 9 giugno 1945
Luciano Camerino (Roma, 23 luglio 1926 - Firenze, 1 novembre 1966), liberato a Buchenwald in data ignota[49]
Cesare Di Segni (Roma, 5 agosto 1899 - Roma, 23 dicembre 1978), liberato ad Auschwitz il 27 gennaio 1945[50]
Lello Di Segni (Roma, 4 novembre 1926 - 26 ottobre 2018), liberato a Dachau il 29 aprile 1945, figlio di Cesare Di Segni
Angelo Efrati (Roma, 29 aprile 1924 - Roma, 23 dicembre 2008), liberato a Ravensbrueck il 2 maggio 1945[51]
Cesare Efrati (Roma, 2 maggio 1927 - Roma, 2 maggio 2008), liberato a Flossenburg il 22 maggio 1945, fratello di Angelo Efrati[52]
Sabatino Finzi (Roma, 8 gennaio 1927 - Roma, 24 maggio 2012), liberato a Buchenwald l'11 aprile 1945[53]
Ferdinando Nemes (Fiume, 8 giugno 1921 - ...), liberato a Buchenwald l'11 aprile 1945
Mario Piperno (Roma, 6 giugno 1916 - Ostia, 21 maggio 2003), liberato a Dachau il 29 aprile 1945[54]
Leone Sabatello (Roma, 18 marzo 1927 - 5 ottobre 2008), liberato a Ravensbrueck il 30 aprile 1945
Angelo Sermoneta (Roma, 10 giugno 1913 - ...), liberato a Dachau il 29 aprile 1945
Isacco Sermoneta (Roma, 8 marzo 1912 - Roma, 1991), liberato a Monaco il 1º maggio 1945[55]
Settimia Spizzichino (Roma, 15 aprile 1921 - Roma, 3 luglio 2000), liberata a Bergen Belsen il 15 aprile 1945
Arminio Wachsberger (Fiume, 4 novembre 1913 - Milano, 24 aprile 2002), liberato a Dachau il 29 aprile 1945
Anche Fiorella Anticoli ed Enrica Spizzichino furono liberate, ma morirono nei giorni immediatamente successivi alla loro liberazione.
Nel 2009 le testimonianze di Enzo Camerino, Lello Di Segni, Sabatino Finzi, Leone Sabatello, Settimia Spizzichino e Arminio Wachsberger sono state raccolte da Marcello Pezzetti nel volume Il libro della Shoah italiana (Torino, Einaudi), nell'ambito di una ricerca del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea intesa a raccogliere "i racconti di chi è sopravvissuto".
Con le morti di Enzo Camerino il 2 dicembre 2014 e di Lello Di Segni il 26 ottobre 2018 sono scomparsi gli ultimi sopravvissuti del rastrellamento.
Il ghetto ebraico di Roma è tra i più antichi ghetti del mondo; è sorto 40 anni dopo quello di Venezia che è il primo in assoluto. Il termine deriva dal nome della contrada veneziana, gheto, dove esisteva una fonderia (appunto gheto in veneziano), dove gli ebrei di quella città furono costretti a risiedere; un'altra possibile etimologia fa risalire l'origine di questa parola all'ebraico, che significa separazione.
https://it.wikipedia.org/wiki/Ghetto_di_Roma
Storia
Le origini nell'era della Chiesa
Paolo IV: nel 1555 ordinò l'istituzione del ghetto
La pescheria in via del Portico d'Ottavia[1](ca.1860).
Gregorio XIII: nel 1572 impose agli ebrei una predica settimanale
Pio IX: nel 1848 ordinò di abbattere il muro che circondava il ghetto
Il 12 luglio del 1555 il papa Paolo IV, al secolo Giovanni Pietro Carafa, con la bolla Cum nimis absurdum, revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani ed ordinò l'istituzione del ghetto, chiamato "serraglio degli ebrei", facendolo sorgere nel rione Sant'Angelo accanto al teatro di Marcello. Fu scelta questa zona perché la comunità ebraica, che nell'antichità classica viveva nella zona dell'Aventino e soprattutto in Trastevere, vi dimorava ormai prevalentemente e ne costituiva la maggioranza della popolazione.
Oltre all'obbligo di risiedere all'interno del ghetto, gli ebrei, come prescritto dal paragrafo tre della bolla, dovevano portare un distintivo che li rendesse sempre riconoscibili: un berretto gli uomini, un altro segno di facile riconoscimento le donne, entrambi di colore glauco[2] (glauci coloris). Nel paragrafo nove, inoltre, veniva loro proibito di esercitare qualunque commercio ad eccezione di quello degli stracci e dei vestiti usati. Da tale eccezione ebbe successivamente origine, in Roma, una tradizionale presenza degli ebrei nel campo del commercio dell'abbigliamento e di alcuni dei suoi accessori. Nella stessa bolla era loro proibito di possedere beni immobili. Ciò contribuì, a partire dagli ebrei dell'epoca, a rivolgersi verso i beni mobili per eccellenza: l'oro e il denaro. Da ciò ebbe origine quella liquidità che fu utilizzata dagli stessi papi per ottenere prestiti.
Inizialmente erano previste nel ghetto due porte che venivano chiuse al tramonto e riaperte all'alba. Il numero degli accessi, aumentando l'estensione e la popolazione, fu successivamente ampliato a tre, a cinque e poi ad otto[3].
La proibizione al possesso dei beni immobili da parte degli occupanti diminuì la cura per la loro conservazione. Per questo motivo le case del ghetto erano particolarmente degradate. Ciò giustificò il neo insediato governo italiano, in occasione della costruzione dei muraglioni lungo il Tevere, ad autorizzarne la distruzione. Il ghetto, prima della sua distruzione, costituiva un unicum rispetto al resto della città. Le case erano alte a causa della forte densità abitativa. Porte di comunicazione tra abitazioni limitrofe e ponti di collegamento tra un isolato e l'altro facilitavano la fuga in occasione delle prevaricazioni dei gentili (come, ad esempio, quelle che avvenivano per la caccia agli ebrei in occasione dell'allestimento del carnevale romano). Poiché il ghetto era a ridosso del Tevere, a causa del fango del fiume, le facciate degli edifici assumevano una colorazione a strati che corrispondeva alla cronologia delle ultime piene.
Nel 1572 papa Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni, impose agli ebrei romani l'obbligo di assistere settimanalmente, nel giorno di sabato, a prediche che avevano il fine di convertirli alla religione cattolica. Queste "prediche coatte" si tennero, nel corso dei secoli, con risultati invero assai modesti, in sedi diverse, tra le quali: Sant'Angelo in Pescheria, San Gregorio al Ponte Quattro Capi (ora San Gregorio della Divina Pietà) e nel Tempietto del Carmelo. L'obbligo fu revocato solamente nel 1848 da Pio IX. Secondo quanto afferma un'antica tradizione, gli ebrei si preparavano all'ascolto tappandosi le orecchie con la cera (la scena è rievocata nel film Nell'anno del Signore di Luigi Magni).
Il 6 ottobre 1586, con il motu proprio Christiana pietas, papa Sisto V revocò alcune restrizioni e consentì un piccolo ampliamento del quartiere che raggiunse un'estensione di tre ettari.
Le vicende della Rivoluzione francese e delle conquiste napoleoniche, sia pure con anni di ritardo e per un periodo limitato, modificarono le condizioni di vita degli ebrei romani. Il 10 febbraio 1798 le truppe francesi, comandate dal generale Berthier, entrarono in città. Il 15 febbraio venne proclamata la Prima Repubblica Romana, il 17 dello stesso mese all'interno del ghetto, in piazza delle Cinque Scole, fu eretto un "albero della libertà", il 20 papa Pio VI fu costretto a lasciare Roma ed il giorno dopo, a Monte Cavallo[4], il comandante francese proclamò la parità di diritti degli ebrei e la loro piena cittadinanza.
Tale condizione ebbe breve durata: nel 1814, con il definitivo ritorno del nuovo pontefice Pio VII, gli ebrei furono nuovamente rinchiusi nel ghetto.
Nel 1825, durante il pontificato di papa Leone XII, il ghetto, la cui popolazione era considerevolmente aumentata[5], venne ulteriormente ingrandito.
Il 17 aprile 1848, papa Pio IX ordinò di abbattere il muro che circondava il ghetto. Con la proclamazione della Repubblica Romana, nel 1849, la segregazione fu abolita e gli ebrei emancipati. Caduta la Repubblica, lo stesso pontefice obbligò gli ebrei a rientrare nel quartiere sia pure ormai privo di porte e recinzione.
Il Regno d'Italia
Il 20 settembre 1870 toccò ad un ufficiale ebreo piemontese il compito di comandare la batteria dei cannoni che aprì una breccia nelle mura di Roma a Porta Pia, Giacomo Segre. Con l'annessione della città al Regno d'Italia terminò il potere temporale dei papi, il ghetto fu definitivamente abolito e gli ebrei equiparati ai cittadini italiani.
Lapide commemorativa della deportazione del 16 ottobre 1943
Nel 1888, con l'attuazione del nuovo piano regolatore della capitale, buona parte delle antiche stradine e dei vecchi edifici del ghetto, malsani e privi di servizi igienici, furono demoliti creando così tre nuove strade: via del Portico d'Ottavia (che prendeva il posto della vecchia via della Pescheria), via Catalana e via del Tempio. Sono scomparsi in questo modo interi piccoli isolati e strade che costituivano il vecchio tessuto urbano del rione, sostituiti da ampi spazi e quattro nuovi isolati più ordinati ma anche meno caratteristici. In particolare, scomparve anche la caratteristica piazza Giudea con i suoi edifici degradati, che era uno degli spazi principali di accesso al Ghetto: al suo posto oggi si aprono ampie vie. Per avere un'idea di come doveva apparire il vecchio ghetto basta osservare la fila di edifici che si trovano sul lato nord di via del Portico d'Ottavia, accanto a ciò che rimane dell'antico complesso augusteo.
Nel 1889 venne indetto un concorso per la costruzione della nuova sinagoga e selezionati due progetti. Nel 1897 la Comunità ebraica acquistò dal Comune di Roma l'area tra Lungotevere Cenci e via del Portico d'Ottavia, resa libera dalle precedenti demolizioni, per la costruzione del tempio. Nel 1899 venne scelto il progetto dell'architetto Osvaldo Armanni e dell'ingegnere Vincenzo Costa, ispirato a motivi assiro-babilonesi e dell'Art Nouveau. I lavori, iniziati nel 1901, terminarono nel 1904 ed il 29 luglio dello stesso anno il Tempio Maggiore di Roma fu inaugurato. Nel seminterrato dell'edificio ha trovato recentemente sistemazione il Museo ebraico.
Durante il nazifascismo
Lo stesso argomento in dettaglio: Rastrellamento del ghetto di Roma e Censimento degli ebrei.
Via del Portico d'Ottavia 13, "il portonaccio"
Sabato 16 ottobre 1943, i nazisti effettuarono una retata che, pur interessando molte altre zone di Roma, ebbe il suo epicentro nell'ex ghetto, dove furono catturati oltre mille ebrei (anche in conseguenza del censimento degli ebrei svolto anni prima dal Governo Mussolini).[6][7] Dopo aver circondato il quartiere alle prime luci del giorno, reparti delle SS sequestrarono numerose persone, soprattutto in via del Portico d'Ottavia. Da uno dei due palazzi rinascimentali della via, posto al numero civico 13, chiamato dai locali "il portonaccio", furono infatti prelevate a forza molte delle persone poi deportate.[8] I prigionieri furono rinchiusi nel Collegio Militare di Palazzo Salviati in via della Lungara. Trasferiti alla stazione ferroviaria Tiburtina, furono caricati su un convoglio composto da diciotto carri bestiame. Il convoglio, partito il 18 ottobre, giunse al campo di concentramento di Auschwitz il 22 successivo. Delle 1023 persone deportate, soltanto sedici riusciranno a sopravvivere, tra queste una sola donna[9] e nessun bambino.[10]
La Repubblica
Il 9 ottobre 1982 vi fu un attentato nei pressi del Tempio Maggiore, un commando di terroristi palestinesi assalì i fedeli che uscivano dalla Sinagoga. Raffiche di mitra ed il lancio di una granata causarono la morte del piccolo Stefano Taché di due anni ed il ferimento di 35 persone.
Il 13 aprile 1986, San Giovanni Paolo II papa si recò in visita al Tempio Maggiore, accolto dal presidente della Comunità ebraica di Roma Giacomo Saban e dal rabbino capo Elio Toaff. Nel suo discorso definì gli ebrei «... i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori»; il pontefice si ricordò di questa visita nella scrittura del suo testamento.
Il 17 gennaio 2010 papa Benedetto XVI ha visitato il Tempio Maggiore rinsaldando il dialogo ebraico-cattolico e rendendo omaggio alle vittime dello sterminio nazista. Nel 2016, nel medesimo giorno, la visita al Tempio è stata replicata da papa Francesco.
Oggi
Estensione
Roesler Franz: via della Fiumara in ghetto allagata dal Tevere prima della costruzione dei muraglioni
La zona che i romani oggi indicano come "ghetto" è all'incirca delimitata da Via Arenula, Via dei Falegnami, Via de' Funari, Via della Tribuna di Campitelli, Via del Portico d'Ottavia e Lungotevere de' Cenci.
Il ghetto storico era, invece, molto più ristretto e situato, pressappoco, tra le attuali via del Portico d'Ottavia, piazza delle Cinque Scole ed il Tevere.
La sorte di quella zona venne decisa nel 1875, quando il Parlamento deliberò e finanziò la costruzione dei famosi "muraglioni" di arginatura, per difendere Roma dalle piene del suo fiume. Infatti, il solo sventramento necessario alla creazione dello spazio per il tracciato del lungotevere, avrebbe comportato la demolizione di circa metà del vecchio ghetto.
Con l'occasione, si decise di portare a termine una più radicale opera di risanamento, che si concretizzò nel radere al suolo praticamente ogni edificio del vecchio ghetto e nella creazione degli attuali quattro isolati.
Dopo il 20 settembre 1870, gli ebrei romani hanno stabilito la loro residenza anche in altre zone della città, pur mantenendo un attaccamento particolare per la vecchia area del ghetto, all'interno del quale, o nelle sue immediate vicinanze, sono tuttora situati i principali punti di riferimento della comunità ebraica romana.
Numerosi ghetti ebraichi furono istituiti in Italia tra il XVI e il XIX secolo nelle città di residenza degli ebrei, secondo i dettami della bolla "Cum nimis absurdum" di papa Paolo IV del 1555. La chiusura dei ghetti avvenne nell'Ottocento come conseguenza del processo di emancipazione degli ebrei italiani.
https://it.wikipedia.org/wiki/Ghetti_ebraici_in_Italia
Storia
L'istituzione dei ghetti a partire del XVI secolo fu limitata al Centro-Nord d'Italia, poiché come conseguenza dei decreti di espulsione non esistevano più all'epoca comunità ebraiche nel Meridione. In alcune realtà locali gli ebrei furono capaci di ritardare (come in Piemonte) o evitare (come a Livorno o a Pisa) l'istituzione del ghetto, o limitarne alcuni degli effetti restrittivi. Fu solo comunque alla fine del Settecento, con la diffusione degli ideali della rivoluzione francese e l'occupazione francese che i ghetti furono progressivamente aboliti. L'emancipazione degli ebrei promossa in Piemonte fin dal 1848 dallo Statuto Albertino divenne legge del nuovo Stato italiano. L'ultimo ghetto ad essere abolito fu quello di Roma nel 1870, all'indomani dell'annessione.
Molti dei ghetti furono abbandonati dalla popolazione ebraica e caddero in una situazione di degrado e abbandono, altri rimasero il centro (non più coatto) della vita della comunità locale. A cavallo tra Ottocento e Novecento molti dei ghetti furono interessati dall'opera di risanamento di cui furono oggetto molti degli antichi centri storici delle città italiane. Alcuni ghetti furono totalmente demoliti (Firenze), in altri casi largamente rimaneggiati con demolizioni e sventramenti (Roma, Mantova). In altri casi il ghetto si è conservato pressoché integro (Venezia).[1]
Oggi è in molti casi ancora possibile riconoscere l'area dei vecchi ghetti, il luogo dove erano collocate le porte, le abitazioni con i loro cortili e passaggi interni, le sinagoghe che di regola dovevano essere nascoste e prive di segni esteriori di riconoscimento. In anni recenti, i ghetti sono diventati una attrazione turistica e sforzi sono stati compiuti da alcune amministrazioni locali per preservarne le tracce rimaste e farne parte fruibile di itinerari turistici. La logica della preservazione della memoria e della conservazione di ambienti anche non monumentali ma di interesse storico sta sostituendosi alla politica dell'abbandono e dell'incuria che specie nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale ha causato perdite inestimabili al patrimonio storico, artistico e culturale italiano. Il termine ghetto deriva dal termine veneziano "fonderia".
I ghetti ebraici in Italia
L'elenco (incompleto) offre una lista, regione per regione secondo l'ordine di istituzione, dei ghetti ebraici in Italia, con l'anno di apertura e di chiusura definitiva e note sintetiche sul loro attuale stato di preservazione:
Piemonte
Ghetto di Torino (1679-1848)
Ghetto di Fossano (1705-1848)
Ghetto di Alessandria (1723-1848)
Ghetto di Asti (1723-1848)
Ghetto di Casale Monferrato (1723-1848)
Ghetto di Nizza Monferrato (1723-1848)
Ghetto di Trino (1723-1848)
Ghetto di Vercelli (1723-1848)
Ghetto di Biella (1724-1848)
Ghetto di Carmagnola (1724-1848)
Ghetto di Chieri (1724-1848)
Ghetto di Cuneo (1724-1848)
Ghetto di Ivrea (1724-1848)
Ghetto di Mondovì (1724-1848)
Ghetto di Saluzzo (1724-1848)
Ghetto di Acqui Terme (1731-1848)
Ghetto di Moncalvo (1732-1848)
Ghetto di Cherasco (1740-1848)
Ghetto di Savigliano (1774-1848)
Lombardia
Ghetto di Mantova (1612-1798), parzialmente demolito (1904)
Ghetto di Iseo (1740-1945)
Veneto
Ghetto di Venezia (1516-1797), integro
Ghetto di Verona (1600-1797)
Ghetto di Padova (1603-1797)
Friuli-Venezia Giulia
Ghetto di Trieste (1684-1784)
Ghetto di Gorizia (1698-1784)
Ghetto di Gradisca (1769-1782)
Emilia-Romagna
Ghetto di Bologna (1566-1859)
Ghetto di Mirandola (1602-1637)
Ghetto di Ferrara (1627-1859)
Ghetto di Cento (1638-1831)
Ghetto di Lugo (1639-1831)
Ghetto di Reggio nell'Emilia (1669-1797)
Liguria
Ghetto di Genova
Ghetto di Lerici
Toscana
Ghetto di Firenze (1571-1848), demolito (1885-1895)
Ghetto di Siena (1571-1848)
Ghetto di Pitigliano (1622-1861)
Trentino
Ghetto di Borgo Valsugana (n.a.-n.a.)
Ghetto di Mori (n.a.-n.a.)
Ghetto di Nomi (n.a.-n.a.)
Ghetto di Pergine Valsugana (n.a.-n.a.)
Ghetto di Riva del Garda (n.a.-n.a.)
Ghetto di Rovereto (n.a.-n.a.)
Ghetto di Strigno (n.a.-n.a.)
Ghetto di Trento (n.a.-n.a.)
Marche
Ghetto di Ancona (1555-1861)
Ghetto di Osimo (1555-1861)
Ghetto di Pesaro (1632-1861)
Ghetto di Urbino (1633-1861)
Ghetto di Senigallia (1634-1861)
Lazio
Ghetto di Roma (1555 - 1870)
Ghetto di Fondi
Ghetto di Ronciglione (n.a.-n.a.) [1]
Ghetto di Sacrofano (n.a.-n.a.)
Ghetto di Tivoli (1555-1847)
Ghetto di Sermoneta (n.a-n.a)
Campania
Ghetto di Capua (1375-1540)[2]
Puglia
Ghetto di Manduria
Claustro giudecca di Altamura.
Calabria
Giudecca di Nicotera
Sardegna
Ghetto di Cagliari (n.a.-1492)
Ghetto di Sassari (n.a.-1492)
Ghetto di Alghero (n.a.-1492)
Sicilia
Giudecca di Siracusa (n.a.-1492), ex ghetto ebraico[3]
Giudecca di Caltagirone (n.a - 1492), oggi Zona Miracoli
https://it.wikipedia.org/wiki/Censimento_degli_ebrei
https://it.wikipedia.org/wiki/Fascismo_e_questione_ebraica
https://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_razziali_fasciste
https://rumble.com/v19x0f4-apocalisse-2012-e-vidi-i-morti
riassunto cults pagani: https://rumble.com/v23w0mk-bergoglio-e-lo-sciamano
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