Il socialismo dei ricchi

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L’immortale post del Pedante: il socialismo dei ricchi:

Il socialismo dei ricchi è il trasferimento sistematico e istituzionale di risorse pubbliche ai soggetti economicamente più avvantaggiati della società. Il socialismo dei ricchi è una redistribuzione al contrario, dal basso verso l’alto, che assorbe risorse dalla collettività per concentrarle nelle mani di pochissimi privilegiati (banche, imprese multinazionali) e dei loro vassalli (i politici).

Il socialismo dei ricchi è un obiettivo politico. Comprenderne la natura e gli strumenti permette di sciogliere l’apparente contraddizione di una politica che, mentre predica la riduzione del ruolo dello Stato e il primato dell’iniziativa privata nell’economia, nella pratica aumenta il prelievo e la vigilanza fiscale con effetti macroscopicamente distruttivi della capacità produttiva e dell’occupazione.

L’equivoco è accuratamente coltivato. La narrazione politica e giornalistica amplifica l’immagine di un settore pubblico “protervo” e “insostenibile”. L’insofferenza dei cittadini aumenta: non solo per induzione dei media, ma anche perché in effetti il fardello della mano pubblica lievita sotto la spinta di una deliberata azione legislativa e “riformante”. È uno schema circolare, come la proverbiale ruota del criceto: tasse e burocrazia opprimono il Paese; i politici rispondono sottraendo risorse al settore pubblico e guadagnano consensi; contestualmente (e per quanto possibile occultamente) aumentano tasse e burocrazia; si ritorna al punto di partenza.

Il socialismo dei ricchi si colloca precisamente nella forbice tra aumento della spesa pubblica e impoverimento del settore pubblico. “Spreco” e “corruzione” sono le etichette più in voga per giustificare – su basi economiche rigorosamente non dimostrate ma di sicura presa emotiva – il paradosso di una spesa e di un indebitamento crescenti nonostante i tagli. Per le élites economiche questo paradosso è invece ciò che realmente è: un tangibile e succoso attivo di bilancio.

Il popolino è addestrato a considerare lo Stato inefficiente, indebitato e sprecone. La iattura etica crea la percezione di una iattura economica: il pubblico è un fardello che nel migliore dei casi non ha valore e quindi va smaltito per dare ossigeno al mercato. Ma una volta gettato nell’immondizia, i padroni del mercato ci si fiondano. Loro, che ragionano sui numeri e non sulle suggestioni, sanno che la spesa pubblica è sempre un reddito privato e che la ricchezza dello Stato è, per un privato, il bottino più goloso. Per tanti ottimi motivi. Perché lo Stato è ricco: possiede riserve auree, aziende, immobili, isole, monumenti, demanio ecc. che può mettere a garanzia quasi illimitata dei suoi impegni economici. Perché lo Stato è potente: con la coercizione della legge può requisire parti considerevoli delle ricchezze prodotte o possedute dai alcuni cittadini e distribuirle ad altri. Perché lo Stato gestisce settori la cui domanda non conosce crisi: sanità, previdenza, sicurezza, energia. Perché lo Stato è il single entry-point, la centrale di acquisto, di una sterminata platea di consumatori: la sua intera popolazione.

Per chi ne ha i mezzi, si tratta solo di (far) scrivere le regole giuste per deviare sistematicamente questo fiume di ricchezza nelle proprie cisterne. Quello che segue è un elenco – incompleto e da approfondire – di quelle già attuate.

Debito coatto. È la via maestra: fonte di arricchimento dei ricchi e all’occorrenza leva di ricatto politico per imporre tutte le altre misure. Uno Stato che, come il nostro, per legge può finanziarsi solo indebitandosi con i privati, deve tassare ogni singolo euro di spesa applicando gli interessi. Se i cittadini ricevono 100 devono restituire 102. La differenza va agli speculatori: il sogno proibito, ma reale, di ogni rentier.

Congelamento del cambio e dell’inflazione. Sono le condizioni indispensabili per massimizzare il profitto da debito. Il cambio fisso (euro) e i controlli sulla liquidità (BCE) fanno sì che gli interessi maturati dagli speculatori non possano svalutarsi e quindi, specularmente, che lo Stato si impoverisca in termini reali.

Outsourcing. Al netto delle favole su mercato e concorrenza, la privatizzazione che piace agli investitori è quella che consente di subentrare allo Stato nei settori più redditizi e strategici mantenendone il monopolio di spesa. Grandi appalti di lavori, gestione di monopoli naturali, sanità convenzionata, fondi pensione agevolati, trasferimenti pubblici alle scuole private e reclutamento di personale tramite agenzie sono solo alcuni dei casi in cui il privato fa il lavoro del pubblico facendosi pagare dal pubblico, al riparo dai rischi del mercato. Le tariffe, concordate in ristrette sedi politiche, tengono generosamente conto del lucro e fanno lievitare la spesa pubblica (o diminuire i servizi). L’ultimo caso di scuola è la riforma sanitaria di Obama.

Privatizzazioni? La vulgata recita che le privatizzazioni servirebbero a rendere efficienti le aziende e le attività in mano pubblica. Nella realtà, un investitore dotato di senno rileva solo ciò che è già efficiente e redditizio, all’occorenza spolpandolo (vedi Telecom). Nel caso, prende solo ciò che rende e ha valore e accolla tutto ciò che non rende (bad company) alla collettività, privandola di un reddito in cambio di una zavorra (vedi Alitalia). In altri casi subentra nell’azionariato di aziende pubbliche lasciando il controllo – cioè la responsabilità e la garanzia – allo Stato e drena denaro pubblico attraverso i dividendi (vedi ENI, ENEL).

Patti di stabilità interni. Il blocco della spesa degli Enti locali, anche in presenza di copertura, impedisce da un lato che i soldi siano redistribuiti verso il basso tramite appalti e servizi, dall’altro fa sì che restino blindati nelle casse delle banche garantendone la capitalizzazione e, quindi, la possibilità di specularci a spese dei cittadini. La stabilità garantita da questi patti è, ovviamente ed esclusivamente, quella delle banche.

Project financing. Inevitabile e appetitosa conseguenza dei patti di stabilità, costringe il committente pubblico a delegare l’investimento al privato e quindi: a) ad affidarsi ai fornitori finanziariamente – e non qualitativamente – più forti, escludendo dalla redistribuzione i player medio-piccoli; b) a spendere di più. Un’opera da 500.000 in project financing ventennale (tasso 5%) costa alla collettività 800.000. La differenza (300.000) è il costo del capitale da versare alle banche tramite aumento delle tariffe o intervento pubblico (aumento delle tasse o dell’indebitamento).

Guerra. La percezione di una minaccia alla sicurezza pubblica e alla pace è una festa per i grandi appaltatori, perché in nome dell’emergenza mette in deroga i meccanismi di controllo della spesa pubblica. Il governo USA aveva preventivato 40 miliardi di dollari per la guerra d’Iraq. Ne ha spesi ad oggi più di 800, quasi tutti a vantaggio di poche corporation belliche e petrolifere e senza nessun beneficio per i contribuenti. In un Occidente terrorizzato e dipendente dai media, creare la “domanda” di guerra sbandierando terrorismi e dittature richiede un investimento irrisorio rispetto agli astronomici ritorni attesi.

Vantaggio fiscale. Se per assurdo (!) applicassimo la Costituzione, che predica la progressività fiscale, l’aumento delle tasse necessario ad alimentare i profitti dei ricchi si abbatterebbe anche su questi ultimi, in misura più che proporzionale. Per aggirare questa salvaguardia il grande capitale chiede e ottiene agevolazioni (ad esempio detrazioni su prodotti finanziari), trattamenti di favore (concordati, condoni, altro) e inasprimento della tassazione regressiva (IVA), pratica delocalizzazioni e triangolazioni fiscali e simula passivi. Con ottimi risultati.

Come nel socialismo reale, anche nel socialismo dei ricchi si contrappongono due classi di individui: un’oligarchia dominante e una massa sottomessa. In entrambi i casi lo strumento principe della sottomissione è una narrazione dogmatica ad uso delle masse ma non dei dominatori. In URSS, specialmente dopo Stalin, i burocrati coltivavano uno stile di vita lussuoso, capitalista e classista, diametralmente opposto ai sobri ideali comunitaristi prescritti al popolo. Più sfacciatamente, nel socialismo dei ricchi le masse sono educate all’adorazione del mercato e dei suoi corollari di rischio, merito e concorrenza, e alla rinuncia delle garanzie – diritti, mutualità, condivisione delle risorse vitali, universalità di assistenza e servizi – di un’organizzazione statale. Ciò non riguarda però l’oligarchia finanziaria e industriale. Questa, mentre i piccoli si indeboliscono nella guerra della competizione economica, trovano nel vituperato Stato il “posto fisso” che nega ai deboli, un arricchimento sicuro e senza rischi e il braccio, all’occorrenza armato, di un trasferimento di risorse istituzionale e costante.

Il sogno o l’incubo di un mondo privatizzato è negato dai fatti. L’aumento delle tasse, delle regole e della vigilanza, non solo fiscale, dimostra che l’idea di Stato continua a piacere soprattutto a chi la schifa a parole. I liberisti stupidi se ne rammaricano e abbaiano alla luna degli sprechi, dei diritti acquisiti, della vigliaccheria italica e di mille altri utili miti. Quelli intelligenti, più defilati, si godono i frutti di un socialismo, finalmente, a misura di ricco.

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